Kip Moore, "Slowheart"
Ci sono delle domande che non troveranno mai risposta: è nato prima l'uovo o la gallina? Essere o non essere? Perché l'angolo del comodino ha preso di mira il mignolo del mio piede destro? E poi ci sono domande che una risposta forse non la meritano per niente. Perché dovrebbe piacermi questo disco? Non è country.
L'eterna lotta tra puristi e modernizzatori, nella country music, è più viva che mai. Specialmente negli ultimi anni di rivoluzione musicale che hanno portato a collaborazioni più o meno al limite dell'assurdo e alla voglia di piazzare l'etichetta "Country" su qualsiasi obrobrio uscito dalle menti malate di chi passa il suo tempo nei piani alti di Music City.
Ma è possibile che tutta la produzione di Nashville, quella che non rispetta i canoni di vera country music, sia solo spazzatura da buttare assieme all'umido nella raccolta settimanale?
Sia chiaro, io non sono né purista né modernizzatrice: io sono appassionata di buona musica. Il fatto che la musica di qualità sia all'ottanta percento quella amata dai puristi, è solo una coincidenza.
Il restante 20% è formato da chi, seppur ormai distaccato in maniera quasi irriconoscibile dai canoni della Nashville d'altri tempi, riesce a regalarci un ottimo prodotto. Di quelli che non riesci a smettere di cantare e faresti di tutto per poter sentire, almeno una volta, dal vivo.
Di ribelli del country, negli ultimi anni, ne abbiamo visti tanti. Alcuni, come Kane Brown o Sam Hunt, sarebbe meglio dimenticarli; altri invece meritano a tutti gli effetti di essere presi con la serietà del caso. Uno di questi è sicuramente Kip Moore, ragazzaccio originario della Georgia, che ha fatto però dei Caraibi la sua seconda casa.
Il bad boy tutto t-shirt smanicate e tavola da surf, è uscito recentemente con il suo ultimo disco, Slowheart. Un percorso lungo e tortuoso, arrivato due anni dopo Wild Ones e frutto di molte discussioni con la casa discografica e il suo entourage.
Fin dalle prime note è difficile riconoscere quel ragazzo che nel lontano 2011 scalò fino al primo posto della classfica country con Something 'bout a truck. Questo è un Kip ormai sicuro nella sua dimensione, quella di rocker moderno con la faccia da bravo ragazzo. Un bravo ragazzo però che non si vergogna a litigare con la sua casa discografica quando gli viene proposto di cambiare il testo di Bittersweet Company per rederla più favorevole alle Country Radio.
Fin dall’uscita del primo singolo estratto dall'album, Girls Like You, si è potuto sentire quel suono che ormai è diventato l’essenza delle opere di Kip Moore: quel rock alla John Mellencamp adattato ai giorni nostri, unito ad una qualità testuale molto più vicina a quella della country music. Una combinazione che si può sentire benissimo in quelli che sono due dei migliori pezzi dell’album, Plead the Fifth e The Bull.
Ma è la chiusura dell’album a consegnarci il regalo più inatteso. Guitar Man è il diamante grezzo di questo disco, spariscono tutti i suoni duri dell’intero album per far spazio ad un pezzo più intimo e un racconto autobiografico dei difficili momenti passati da un musicista in difficoltà all’inizio della propria carriera.
“Off in the shadows, stand a stool and a stage. Where many souls before me were put on display. I take one last breath, time to pay some more dues. That won’t add up to nothing, but tips and cheap booze – Nascosto nell’ombra c’è un palco ed uno sgabello, dove molte anime prima di me sono state messe in mostra. Prendo un ultimo respiro è ora di pagare qualche altro debito, che non mi porterà nulla tranne qualche mancia e dell’alcool da quattro soldi".
Kip Moore - Slowheart
MCA Nashville Records, 8 settembre 2017
Voto: 3 cactus e ½