Chris Stapleton, "From A Room: Volume 2"

Che cos'è, in fondo, un album di Chris Stapleton?

Di certo è il formato nel quale vende meglio la sua musica. In questi ormai quasi tre anni i suoi sconvolgenti trionfi sul piano delle vendite e delle classifiche sono quasi tutti concentrati nel settore degli album. Il che però forse racchiude un piccolo paradosso, perché per lui più che per tanti altri l'album sembra essere davvero solo questo, e nulla di più. Stapleton non è uno che scrive album: è uno che scrive canzoni. Ne compone moltissime, e solitamente le pubblica solo svariati anni dopo: preferisce prima farle decantare e invecchiare, come un buon distillato. Le assembla in un album semplicemente perché a quanto pare la gente preferisce acquistarle “a pacchi”, come quando si comprano le birre nei six pack.

Non a caso nel 2017 ne ha fatti uscire due a distanza di pochi mesi, denominandoli e confezionandoli come se si trattasse dei due volumi di un unico lavoro - mentre nulla, a parte la denominazione e la confezione, lo conferma. Si tratta, semmai, di due episodi di un'unica storia, la storia di questo fenomenale songwriter inspiegabilmente rimasto più o meno nell'ombra per più di 15 anni, a scrivere grandi successi per mezza Nashville, pur avendo ricevuto in dono dagli dèi una voce con la quale poteva emozionare cantando anche l'elenco del telefono, come gli disse qualcuno tanti anni fa.
Io una mia idea me la sono fatta, sul perché Stapleton abbia atteso tanto a lungo prima di decidersi a metterci veramente la faccia. Ma poichè non la ho ancora potuta verificare, per ora me la tengo per me, come lui ha tenuto per sè tanto a lungo la sua voce da brivido. 
Sta di fatto che l'ultimo episodio di questa strana storia, per convenzione, sta lì in questo breve album - appena nove canzoni - uscito a dicembre con il titolo "From A Room: Volume 2". 

Ben due brani su nove sono delle cover, e questa è una delle sue manie che mi incuriosisce di più. Dobbiamo prendere atto del fatto che Stapleton pur essendo innanzitutto un songwriter (e che songwriter) non rinuncia ad inserire almeno una cover in ogni suo album. E’ come se il songwriting fosse talmente tanto la sua dimensione, da spingerlo a lavorare anche su quello altrui. Inoltre, constatiamo che nel scegliere i brani da reinterpretare fa ciò che gli pare e piace, senza farsi influenzare da altro che dalla sua sensibilità artistica: sceglie quelle che secondo lui sono delle gran canzoni, e le esegue reinventandole o anche no, a seconda di quello che a lui sembra più bello fare.

Attenzione: un songwriter di razza che sceglie di ricorrere a delle cover per realizzare quasi un quarto dell’album sta di fatto destinando ad altri quasi un quarto degli incassi per diritti d’autore, pur non avendone nessun bisogno. In teoria potrebbe essere una tattica per arruffianarsi il pubblico riproponendo brani già molto noti; ma se si prende in mano questo “Volume 2” la sola idea risulta ridicola. Sia la cover che ha l’onore di aprire l'album - la splendida "Millionaire", scritta ed interpretata da Kevin Welch nel 2002 – che quella che lo chiude, "Friendship", brano registrato in passato da Pops Staples, il cantante dalla band soul The Staples Singers, sono canzoni talmente poco celebri che, prima di averne ascoltato la versione di Stapleton, si poteva quasi sospettare che lui, al contrario, le avesse scelte proprio per questo, per avere la libertà di stravolgerle senza urtare il pubblico. Welch, diciamolo, non rientra certo fra i 100 cantanti country più famosi; e "Friendship" è andato a pescarla da un album postumo uscito pochi anni fa con materiali inediti registrati da Staples e rimasti nel cassetto. Ascoltandole, però, anche questo sospetto finisce nel cestino: "Millionaire" è eseguita da Stapleton mantenendo praticamente intatto l'arrangiamento originale, di suo ci ha messo solo la voce - anzi le voci, non solo la sua ma anche quella della moglie Morgane, inseparabile anche (ma non solo) come corista; "Friendship" è invece leggermente rivisitata, svecchiata nel sound, ma è comunque mantenuta nel suo genere soul e molto vicina all'originale.

Il che è anche una grande prova di umiltà perché Stapleton, quando vuole, è anche geniale nel riarrangiare e reinventare brani altrui. Il caso più ovvio è naturalmente "Tennessee Whiskey", ad oggi probabilmente il brano (re)interpretando il quale ha conquistato la fetta più grossa della sua crescente fama. Altra canzone che quando lui ci mise mano non era certo conosciutissima: la originaria versione country aveva raggiunto una certa notorietà nella interpretazione di George Jones, ma ciò accadeva in un'altra era geologica, e quando nel 2015 il nostro decise di rivoltarla come un calzino e trasformarla in un brano blues, era oggettivamente caduta nel dimenticatoio da molti anni. Ma, ripeto, non c’è in questo un disegno deliberato: pure nel “Volume 1” troviamo una cover, "Last Thing I Needed First Thing This Morning", ma è presa dal repertorio di un mostro sacro come Willie Nelson, ed è stata in vetta alle classifiche nel 1982.

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Passando ai sette brani che portano la sua firma, poi, notiamo che due di questi sono delle "riappropriazioni": e anche questo è un piccolo rituale al quale ci ha ormai abituati, dopo averglielo visto fare nel suo album di debutto "Traveller" con "Whiskey and You", già uscita nel 2007 nella interpretazione, elegante ma decisamente meno emozionante, di Tim McGraw, e poi nuovamente nel "Volume 1" con "Either Way", che era uscita nel 2008 nell'album "Call me Crazy" di Lee Ann Womack.
In questo caso si tratta di “Drunkard’s Prayer”, un brano scritto da lui che era stato registrato da John Michael Montgomery nel 2008, e di “Midnight Train to Memphis”, quasi un esercizio di stile quanto al testo che è quello di una classica "prison song", già cantata da Stapleton con la band bluegrass The SteelDrivers nella quale militava prima della celebrità, ora però trasformata in un pezzo rock-blues forte e feroce, davvero irresistibile.

I brani totalmente inediti sono quindi in tutto solo cinque. Di questi, nemmeno uno strizza l'occhio al maistream radiofonico; ma al tempo stesso nemmeno uno appare orientato a coltivare la tradizione della musica country. Anzi: la pedal steel guitar, ad esempio, è totalmente assente in "Volume 2" (contrariamente a quanto era accaduto con "Traveller", ed in minore misura con il "Volume 1"). Qualche tradizionalista un po’ dogmatico potrebbe mettersi le mani nei capelli: senza pedal steel, questo disco dovrebbe risultare “meno country” dei precedenti. Prima di trarre una simile conclusione, però, mi domanderei quanta pedal steel c'è nei dischi di Johnny Cash. E non è un precedente che cito a caso: “Hard Livin'”, uno dei pezzi più belli del disco, ha una matrice profondamente country, e ricorda vagamente quella “There Ain't no Good Chain Gang” che 40 anni fa fu uno dei pochi duetti registrati proprio da Johnny Cash assieme a Waylon Jennings. Certo, nella produzione del Chris Stapleton interprete la musica country non è mai presente “allo stato puro”: è una componente di una miscela, fondamentale ma inscindibile dalle altre, cioè la musica blues ed il southern rock. Se dovessi sforzarmi di rintracciare un precedente altrettanto perfetto di questo genere di formula alchemica, dovrei forse risalire ai Creedence Clearwater Revival.

È un album assemblato come i precedenti: con grande libertà, senza voler dimostrare nulla, senza voler piacere a tutti. Forse è anche per questo che Stapleton piace (quasi) a tutti.

Chris Stapleton - "From A Room : Volume 2"
Mercury Nashville, 1 dicembre 2017
Voto: 4 cactus e 1/2

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Country Nation